martedì 25 giugno 2013

Le minoranze & alloglossie in Italia

Le alloglossie in Italia. 

Tra le alloglossie presenti in Italia (i cui parlanti ammontano a meno del 5% della popolazione complessiva), formano altrettante minoranze nazionali in continuità territoriale con le madrepatrie di riferimento le popolazioni che praticano (accanto ai locali dialetti germanici, slavi e francoprovenzali) un uso colto e co-ufficiale del tedesco (provincia autonoma dell’Alto Adige / Südtirol), dello sloveno (Trieste, Gorizia e aree rurali circostanti; ➔ slovena, comunità) e del francese (regione autonoma Vallée d’Aoste / Valle d’Aosta). Sono poi minoranze linguistiche che praticano varietà alloglotte di tipo germanico anche i membri di alcune comunità sparse lungo la catena alpina in Valle d’Aosta e in Piemonte (gruppi Walser; ➔ walser, comunità), in Trentino e in Veneto (gruppi Cimbri e Mòcheni e isola linguistica di Sappada) e in Friuli (comunità carinziane di Sauris, Timau e del Tarvisiano), storicamente prive del ‘tetto’ linguistico del tedesco standard. Dialetti sloveni distinti dalla lingua letteraria e i cui parlanti sono tradizionalmente privi di un legame culturale e identitario con la Slovenia si parlano anche lungo la linea di confine tra questo paese e la provincia di Udine, nelle valli del Torre e del Natisone e (in compresenza con dialetti friulani e germanici) nella conca di Tarvisio. Dialetti francoprovenzali slegati dal contesto di bilinguismo ufficiale italo-francese vigente in Valle d’Aosta sono parlati anche nella sezione nord-occidentale della provincia di Torino. Condizioni di alloglossia legate a una continuità territoriale transfrontaliera riguardano poi i dialetti provenzali (o occitani) parlati nel settore alpino del Piemonte tra la Val di Susa e la Val Vermenagna (➔ provenzale, comunità). 
Nell’Italia meridionale e insulare, le parlate alloglotte appaiono maggiormente disperse, come risultato dell’immigrazione in epoca medievale e moderna di popolazioni provenienti dall’esterno, con la probabile eccezione dei dialetti neogreci del Salento e dell’Aspromonte, per i quali resta aperto il problema della continuità con la lingua che fu parlata nella Magna Grecia (➔ greca, comunità). Fra il Quattrocento e il Settecento si formarono invece le comunità di dialetto albanese diffuse tra l’Abruzzo meridionale, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia (➔ albanese, comunità). Nella stessa epoca si verificarono gli insediamenti slavi (croati) del Molise (➔ serbocroata, comunità); al Trecento risale invece il ripopolamento di Alghero in Sardegna da parte di genti provenienti dalla Catalogna. Gruppi di dialetto provenzale (e originariamente di confessione valdese) si stanziarono a loro volta in Calabria nel XV secolo (Guardia Piemontese), altri di dialetto francoprovenzale si stabilirono in epoca imprecisata nella Puglia settentrionale (Faeto e Celle San Vito). Quest’ultimo popolamento non va probabilmente disgiunto, per epoca e circostanze, dall’immigrazione in Sicilia, in Basilicata e nel Cilento di popolazioni parlanti dialetti italiani settentrionali di area ligure e piemontese meridionale (galloitalici; ➔ gallo-italica, comunità), che costituiscono un altro caso di parlata alloglotta, così definibile in rapporto al continuum dialettale in cui si trovano inserite. A maggior ragione alloglotta, perché integrata in un contesto a sua volta alloglotto rispetto al resto d’Italia, è l’isola linguistica tabarchina in Sardegna (➔ tabarchina, comunità). Alloglotti con tradizioni storiche antiche (risalenti almeno al Trecento) sono inoltre i gruppi zingari presenti in Italia, dispersi in collettività nomadi appartenenti ai ceppi Sinti (prevalenti nell’Italia settentrionale) e Rom (accresciuti di recente dall’immigrazione dall’Est europeo; ➔ zingare, comunità). 
La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche al sistema dei dialetti sardi (➔ sardi, dialetti), che si considerano come un gruppo romanzo autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani; e ai dialetti friulani e ladini, spesso integrati in una superiore unità ‘retoromanza’, e la cui peculiarità è legata al persistere di condizioni di maggiore arcaicità rispetto alle contermini parlate italiane settentrionali. Per una parte almeno dell’area di dialetto ladino (➔ ladina, comunità) va del resto sottolineato che il mantenimento delle parlate locali si verificò in un ambito culturale prevalentemente germanico, e che lo sviluppo di una specifica identità ladina ha seguito fino a tempi recenti le vicende legate al contesto territoriale tirolese, fatto che ha accresciuto il senso collettivo di specificità della popolazione interessata. 
Alle situazioni che compongono la mappa delle alloglossie storiche presenti in Italia e comunemente note come minoranze linguistiche (Toso 2008), si dovrebbero aggiungere infine alcuni casi specifici: in primo luogo gli usi linguistici di comunità religiose disperse, come quella ebraica (➔ giudeo-italiano) e quella armena, che fanno un uso liturgico di lingue diverse dall’italiano; poi i gruppi di popolazione che parlano dialetti italiani all’interno di aree territoriali in cui è diffusa una lingua minoritaria: dialetti veneti in Friuli, dialetti corsi (sassarese, gallurese e maddalenino) nella Sardegna settentrionale. 
Carattere di storicità andrebbe ormai riconosciuto, inoltre, a gruppi di popolazione dialettofona trasferiti compattamente in aree diverse da quella d’origine, come i Veneti della Toscana, dell’Agro Pontino e della Sardegna chiamati dal governo fascista (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica) a colonizzare aree di bonifica negli anni Trenta (Telmon 1994). 

Criteri di classificazione. Una classificazione genealogica degli idiomi coinvolti nella categoria delle alloglossie consente di apprezzare la ricchezza di tale patrimonio linguistico storico in Italia, certamente tra i più variegati dell’Europa occidentale: esso comprende infatti idiomi di origine semitica (l’ebraico come lingua liturgica), indoeuropea a sé stante (greco, albanese e armeno come lingua liturgica), indoiranica (dialetti zingari), germanica (tedesco standard e dialetti tirolesi in Alto Adige, gruppi minori dell’area alpina), slava (sloveno standard e dialetti sloveni tra Friuli e Venezia Giulia, croato del Molise), neolatina galloromanza (francese, dialetti francoprovenzali e provenzali), iberoromanza (catalano), italoromanza (galloitalico del Meridione e tabarchino), neolatina a sé stante (dialetti sardi, dialetti friulani e ladini). 
Il panorama delle alloglossie storiche in Italia appare assai vario e articolato anche per distribuzione geografica (lungo i confini settentrionali e nel contesto meridionale e insulare) e per peso demografico: sono minoranze numericamente consistenti quelle regionali sarda (oltre un milione di parlanti) e friulana (almeno 400.000 parlanti), quella sudtirolese (oltre 250.000), quella zingara (circa 120.000) e in minor misura (ma pur sempre con più di 50.000 parlanti) quella valdostana implicata nell’uso ufficiale del francese (che però non è se non eccezionalmente lingua materna dei parlanti), quella slovenofona, quella albanofona e quella galloitalica di Sicilia. In rapporto ai parametri UNESCO di vitalità e di tenuta nell’uso parlato, Berruto (2009: 341) definisce poi «in regressione» il sardo, i dialetti zingari, lo sloveno in provincia di Udine, il francoprovenzale in Valle d’Aosta, l’albanese, il provenzale e il catalano (a cui va aggiunto il galloitalico di Sicilia); in «forte regressione» i dialetti germanici minori, il francoprovenzale della Puglia, il greco e il croato molisano; in «lieve regressione» il friulano e il ladino (a cui va aggiunto il tabarchino, caratterizzato da una notevole tenuta); sono «non minacciate», come si è visto, le lingue delle minoranze nazionali. 

Minoranze italofone all’estero. Quanto alla presenza dell’italiano come lingua minoritaria storica all’estero, essa si limita di fatto alla Slovenia e alla Croazia, dove si riconoscono e tutelano come minoranze nazionali gruppi autoctoni che praticano tradizionalmente dialetti veneti e istrioti, e alla Bosnia-Erzegovina e Romania, dove si riconosce la presenza di una minoranza linguistica italofona risalente alla fine dell’Ottocento. Questo fatto è indicativo tra l’altro dei diversi parametri di storicità che si adottano a seconda delle tradizioni culturali nei diversi paesi, tali da costituire un serio ostacolo nella definizione di una politica comune europea in tema di tutela delle minoranze linguistiche. 
In Francia, lo status di lingue minoritarie si riconosce invece a dialetti italoromanzi come il còrso e il ligure (nel Nizzardo e a Bonifacio in Corsica), ma non all’italiano standard, che neppure si propone come lingua tetto ideale di tali realtà; nel Principato di Monaco il dialetto monegasco è lingua nazionale accanto al francese (che è la lingua ufficiale), mentre l’italiano standard gode (come del resto a Malta) di una notevole diffusione, pur essendo privo di qualsiasi status. 
A San Marino e in Svizzera non si può parlare formalmente di situazioni di minorità, in quanto l’italiano è a tutti gli effetti unica lingua ufficiale della piccola Repubblica (dove è diffuso un dialetto romagnolo) e del Canton Ticino e delle valli italofone del Canton Grigioni (aree di dialetto lombardo) (➔ Svizzera, italiano di); nella Confederazione Elvetica l’italiano è inoltre una delle quattro lingue ufficiali della nazione, anche se, assieme al retoromancio, gode di uno statuto particolare che ne riconosce il carattere minoritario a livello confederale. 
La presenza dell’italiano e dei dialetti in paesi caratterizzati da una forte immigrazione dall’Italia conferma l’ambiguità terminologica del concetto di minoranza linguistica, in base al quale, in accezione ampia, si dovrebbe parlare di minoranze italiane, anche consistenti, almeno in paesi europei come la Germania, la Francia, la Svizzera o il Belgio, e in paesi extraeuropei come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela, il Brasile e l’Australia, paese quest’ultimo dove le lingue immigrate (➔ emigrazione, italiano dell’), tra cui l’italiano, godono comunque di alcune forme di riconoscimento. 

La tutela delle minoranze linguistiche in Italia. Prevista dall’art. 6 della Costituzione, la tutela delle minoranze linguistiche in Italia ha riguardato fino a tempi recenti le sole minoranze nazionali (➔ legislazione linguistica). L’uso co-ufficiale del tedesco in Alto Adige e del francese in Valle d’Aosta fu previsto da accordi internazionali al termine della seconda guerra mondiale, mentre quello dello sloveno di Trieste e Gorizia (ma non dei dialetti sloveni in provincia di Udine) fu regolato a partire dagli accordi di Osimo con la Iugoslavia (1975); inoltre, i provvedimenti relativi al bilinguismo in provincia di Bolzano e i loro controversi meccanismi applicativi hanno riguardato anche la minoranza ladina del Sudtirolo (ma non quella delle province di Trento e di Belluno). Alla fine del 1999, dopo un iter complesso e una discussione che coinvolse l’opinione pubblica e gli ambienti politici e intellettuali (sollecitata anche dall’approvazione da parte del Consiglio d’Europa di una raccomandazione nota come Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, 1992), si approdò a un provvedimento legislativo in materia di «tutela delle minoranze linguistiche storiche». In realtà la legge n. 482/1999, in contrasto col dettato costituzionale (che all’art. 6 sancisce la tutela «con apposite leggi» delle minoranze linguistiche, senza introdurre distinzioni di sorta, e all’art. 3, comma 2, sancisce l’uguaglianza «sostanziale» e il «compito» della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli» che impediscano la piena realizzazione dell’eguaglianza ‘formale’ di tutti «senza distinzione […] di lingua»), parte dall’interpretazione del concetto di minoranza linguistica storica come alloglossia (escludendo peraltro alcuni casi appartenenti a questa categoria), e dal presupposto che i ➔ diritti linguistici riconosciuti alle minoranze nazionali vadano estesi, per preservarne il patrimonio culturale, alle minoranze linguistiche storiche riconosciute (Orioles 2003). 
La confusione tra i concetti di diritto linguistico e di patrimonio linguistico ha introdotto così una discriminazione all’interno di quest’ultima categoria, riconoscendo come suscettibili di tutela solo quelle componenti di essa (un certo numero di alloglossie) alle quali è stato riconosciuto il carattere di «minoranze linguistiche storiche». Non solo l’elencazione imprecisa e parziale, ma anche le modalità di delimitazione degli ambiti territoriali interessati (lasciata di fatto alle amministrazioni locali) contribuirono a un sostanziale fallimento del provvedimento legislativo. Si sono così moltiplicate le polemiche nell’ambito dei contesti linguistici rimasti fuori dal provvedimento (censurato anche dalle istituzioni europee per l’esclusione della lingua zingara; Consani & Desideri 2007), le interpretazioni disinvolte dei criteri di ‘zonizzazione’ (l’accesso ai finanziamenti previsti ha indotto, ad es., molti comuni di tradizioni dialettali piemontesi, liguri e venete a dichiarare inesistenti appartenenze minoritarie) e le applicazioni volte ad affermare (eludendo le tradizioni di plurilinguismo e pluriglossia tradizionalmente presenti sul territorio) la sostanziale equiparazione delle alloglossie alla lingua ufficiale e alle lingue co-ufficiali presenti in Italia, con l’elaborazione di modelli standardizzati privi per lo più di corrispondenza con le esigenze comunicative e identitarie delle popolazioni interessate. 
Il vero problema della tutela dei patrimoni linguistici minoritari resta, in realtà, la difficoltà di rafforzare la consapevolezza della funzionalità di una consuetudine plurilingue presso comunità di parlanti ormai da tempo orientate verso un’adesione incondizionata a codici comunicativi di maggiore prestigio. È evidente che, al di là di iniziative di ricerca e di studio da condursi col supporto di idonei strumenti scientifici, le forme della tutela (a parte il caso delle minoranze nazionali) non dovranno tanto essere rivolte alla promozione di diritti linguistici, neppure percepiti come tali dagli interessati, né a una gestione burocratica e verticistica del bene culturale lingua, quanto a un’educazione al rispetto e alla conoscenza dei patrimoni linguistici minoritari (alloglotti e non) come componenti essenziali, nel loro insieme, del patrimonio culturale del paese.

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